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Cinque agenti di custodia aggrediti da un detenuto nel carcere bergamasco

Secondo l’articolo 27 della Costituzione Italiana, «La responsabilità penale è personale» e «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Su questi due punti, spesso citati e dibattuti, si realizza una totale convergenza di opinioni, sebbene alcuni nella pratica, in malafede e troppo frettolosamente, attribuiscano al primo giudizio o, peggio, alla semplice apertura di un’indagine il valore di una sentenza passata in giudicato.

Su questa ultima interpretazione fortemente giacobina si sono schierati nel recente passato movimenti politici ma anche, sorprendentemente, personaggi provenienti dallo stesso mondo delle toghe, come Piercamillo Davigo, secondo il quale «non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca».

Pochi, invece, sono disposti a riflettere e ad impegnarsi sul terzo e più significativo capoverso dell’articolo 27: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Su questo tema, insieme con mio padre Bruno, M.Aymon, B.Funiciello e G.Graff, nel 1967 ho girato un documentario in 16 mm. nel carcere bergamasco di allora, Sant’Agata in Città Alta, un’amara denuncia delle condizioni di degrado nelle quali i detenuti erano costretti a scontare la propria pena prima che in via Gleno venisse costruita la nuova e moderna «Casa Circondariale».

Ma l’apertura di nuovi luoghi di detenzione spesso non è sufficiente a risolvere il problema dell’applicazione dei criteri di umanità e di rispetto della dignità delle persone: il sovraffollamento (ad esempio il carcere di Bergamo, con una capienza di 350 detenuti, ne ospita attualmente 500), è forse il capitolo più dolente di questo «cahier de doleance» ma non è l’unico.

Carceri sempre più multietniche, luoghi di attesa infinita di processi kafkiani, nelle quali non si persegue il riscatto di chi ha sbagliato ma spesso si favorisce lo scambio di esperienze e piani per continuare ad infrangere la legge una volta conseguita la libertà.

Giocano il loro importante ruolo anche il crescente compito affidato al carcere di “raccolta” di persone con problemi psichiatrici, conseguenza della chiusura degli Ospedali specializzati con la legge Basaglia del 1978 e la cronica mancanza di personale, che ha ridotto la possibilità di controllo e prevenzione ma anche la capacità di ascolto e di contatto umano con i detenuti. In questi mesi di CoViD si è aggiunta, tra i motivi di disagio e di non isolate proteste, anche la paura di essere contagiati e la difficoltà a incontrare parenti e familiari ma anche, in qualche caso, proprio l’abbandono da parte delle stesse famiglie.

La qualificata opera dei medici e psicologi, a causa dell’aumento in questi ultimi anni di patologie mentali, rischia di non essere sufficiente a scongiurare il ripetersi di atti di autolesionismo o di aggressioni al personale carcerario come avvenuto lo scorso giovedì 26 agosto quando un detenuto del carcere «Don Resmini» di via Gleno, in preda ad un improvviso delirio, ha appiccato fuoco al materasso ed alle lenzuola della sua cella.

Cinque gli agenti di custodia intervenuti, tutti aggrediti violentemente dal detenuto e finiti al Pronto Soccorso dove sono stati medicati e dimessi con prognosi entro i venti giorni: per un sovrintendente è stata necessaria l’applicazione di un collare ortopedico.

Il detenuto autore dell’aggressione, dopo essere stato domato, è stato portato sotto scorta all’Ospedale cittadino. Per fortuna, comunque, l’istituto di pena bergamasco è stato molto raramente coinvolto in questo genere di eventi e può sempre contare su grande professionalità, senso del dovere e spirito di corpo degli agenti di polizia penitenziaria.

Enrico Scarpellini

Sabato, 28 agosto 2021

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