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A rischio 80.000 lavoratori bergamaschi senza lasciapassare

Senza voler innescare polemiche, già fin troppo numerose, sono necessarie alcune premesse inconfutabili: la prima è che i vaccini in genere, e quelli contro il CoViD non fanno eccezione, rientrano nel grande capitolo delle profilassi e non possono quindi essere considerati neppure per estrema semplificazione come «terapie» o più comunemente «cure»; la seconda è che tutti i sieri oggi disponibili non offrono garanzie di immunizzazione totale lasciando aperta una sia pur ridotta eventualità di contagio attivo e passivo; la terza è la considerazione che l’unico strumento in grado di accertare la completa assenza di rischio allo stato attuale è il test, che sia sierologico, anticorpale, antigenico, molecolare, salivare o rapido non è importante.

Solo il test, pertanto, dovrebbe essere preso in considerazione per concedere il diritto di godere di quasi tutte le libertà che prima della pandemia consideravamo acquisite. Ed essendo l’unico strumento serio di valutazione a garanzia della salute della collettività, è quello che lo Stato dovrebbe offrire gratuitamente a tutti i cittadini.

Ulteriore passo di civiltà sarebbe favorire e incentivare, senza penalizzare la profilassi vaccinale, anche e soprattutto le terapie precoci domiciliari, sotto la responsabilità dei medici di famiglia, con il beneficio di non sovraccaricare le strutture ospedaliere e le terapie intensive alle quali i pazienti oggi arrivano, come da vecchio protocollo ministeriale ancora in vigore, dopo «paracetamolo e vigile attesa».

Dopo questa premessa, doverosa per chi rispetta il proprio ruolo di operatore indipendente dell’informazione, senza voler entrare nel merito di decisioni politiche al centro di infinite polemiche e contrastanti prese di posizione, vanno tuttavia considerati gli effetti delle nuove disposizioni governative, non solo sulla lunga battaglia di tipo sanitario iniziata il febbraio dello scorso anno, ma soprattutto sui meccanismi di funzionamento della nostra società, sul mondo del lavoro, sui rapporti personali, sulla riduzione discutibile di certi spazi di libertà che fino a pochi mesi fa sembravano garantiti dalla stessa Costituzione.

Ottantamila lavoratori bergamaschi sono ancora privi di «green-pass» e quindi a rischio di sopravvivenza dopo la metà di ottobre, il cui posto di lavoro dipende da un lasciapassare che non ha affatto il valore di certificato di immunità, ma che serve solo a rendere meno percorribili le soluzioni alternative alla vaccinazione di massa, come ammesso dagli stessi promotori: può sembrare una situazione grottesca e invece è una tragedia sulla quale non si possono chiudere gli occhi fingendo che vada tutto bene.

Alla fine del 2020 la Camera di Commercio ha stimato in circa 482 mila i lavoratori occupati nella bergamasca, un dato che, incrociato con le adesioni alla campagna vaccinale sul nostro territorio, limitatamente ai soggetti in età lavorativa, pari a circa l’84% di copertura, indica in circa 405 mila i lavoratori già vaccinati almeno con la prima dose.

Ciò significa che sono quasi 80.000 coloro che risultano «sfuggiti» all’intensa campagna promozionale dei vaccini, ottantamila lavoratori sia del settore pubblico (cinquantamila nella bergamasca) che di quello privato «da stanare» o da estromettere cinicamente dal mondo del lavoro.

In questo perverso meccanismo ci finiscono anche i giovani in cerca di occupazione, circa duemilacinquecento nella bergamasca, che sanno di essere esclusi da ogni possibilità se non muniti di lasciapassare: va comunque precisato che il documento viene rilasciato dopo la prima inoculazione di siero, oppure se si è guariti dal CoViD entro i sei mesi precedenti senza vaccinazione, o se si risulta negativi al test entro le 48 ore precedenti. Resta comunque esclusa la possibilità di ottenere il «green-pass» se non dopo l’esecuzione del test periodico nel caso di eventi ostativi alla vaccinazione, come patologie pregresse incompatibili, stati allergici o altro.

Enrico Scarpellini

Venerdì, 17 settembre 2021

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